Storie, pensieri e riflessioni dagli ospedali canavesani
Ci sarà il giorno in cui le campane torneranno a suonare a festa, le persone a riabbracciarsi e le mani a vibrare nell’aria in una forte stretta. Ci sarà il giorno in cui gli occhi torneranno a sorridere e i sorrisi a sentirsi liberi di raccontare una storia. È quella di un popolo un po’ anarchico e ribelle, o disciplinato e rispettoso, facce però di una stessa medaglia, quella di un paese che ha voglia di vivere. Si canta e si balla dai balconi, si applaudono i camici bianchi, ma intanto fra poco è già primavera.
Poi si rientra in casa e le notizie scorrono, le immagini commuovono e a parlare sono gli sguardi che non nascondono emozioni. Nessuno ha il privilegio di sentirsi al sicuro ed ecco che nelle mani di medici ed infermieri riponiamo la nostra fiducia e riversiamo la nostra paura. Li abbiamo visti con le lacrime agli occhi, provati nella loro stanchezza pronti a non fermarsi mai, in questa e in altre emergenze. Accanto a loro ci si sente protetti e nei loro sguardi si cercano le risposte. Sguardi che parlano da soli a luccicare di gioia o di tristezza, mentre le mascherine rendono flebile la parola. Soffermiamoci a pensare che la nostra sofferenza è la loro in ogni minuto di una giornata oggi infinita. Poi i tanti infermieri pronti ancora una volta a regalare professionalità e sorrisi. Ecco che ogni reparto di ogni ospedale d’Italia, si ritrova a combattere unito una lotta unica dove il Coronavirus la fa da padrone in fisici fragili e debilitati.
Cristina, infermiera del reparto di oncologia dell’ospedale di Ivrea parla di un’atmosfera surreale. Lo fa a nome di tutte le sue colleghe in un reparto che respira della loro gentilezza, simpatia e semplicità e lo sguardo ancora una volta va ai pazienti. “Per noi è difficile ma lo è ancora di più per chi deve usufruire dei nostri servizi”. Nelle sue parole ne traspare una sola, unica: solitudine.
“Quella del malato che non può ricevere un parente o quella di chi in ambulatorio si trova a dover affrontare da solo la sua prima visita davanti a due medici mascherati, che non ti tendono una mano perché non possono, e ti riversano addosso fiumi di informazioni. Persone sperdute e agitate che abbiamo accompagnato in radiologia o in radioterapia per non lasciarle sole. Per noi – conclude Cristina – finito il turno, riprende la quotidianità, e sentiamo di avere in mano la nostra vita. Alle persone malate non penso basti uscire dall’ospedale per ritrovare la propria serenità.”
Ora provate a chiudere gli occhi per un istante! Immaginate chi dietro quella scrivania deve dirti che hai un tumore, deve parlarti di chemio e radio terapia, in un reparto blindato dove pazienti per la prima volta affrontano un percorso oscuro, osservando scendere le flebo goccia a goccia e ricordando a se stessi che presto perderanno i capelli; e tutto questo dovranno farlo da soli senza il sostegno di un proprio caro. E l’oscurità si presenterà a chi affetto da Covid19 dovrà trascorrere ore in un letto d’ospedale a lui sconosciuto, come sconosciuto è il virus che lo ha aggredito. Allora penserà ai suoi figli, ai suoi nipoti, penserà a chi per un tratto di vita più o meno lungo ha saputo stargli accanto, penserà ad una vita che forse gli verrà strappata. “Si tratta di una tragedia – ha sottolineato la dottoressa Erika, oncologa – che ha tolto al normale ciclo della vita, di cui la morte fa parte, la connotazione più sacra… l’umanità, il conforto e la premura davanti ad un proprio caro morente. Ci sono tante cause di morte al mondo, questa ci sta toccando su una corda che non possiamo ignorare.” E continua: “Chiedo solo di comprendere che non è stato, non è e non sarà una cosa da poco perdere un familiare, un parente o un amico senza potergli stare accanto e sussurrargli ti voglio bene. L’invito ancora una volta è quello di stare a casa affinché questa tragedia affligga il meno possibile i cuori di tanta gente, restituendo alle persone la nobiltà che gli appartiene.
E questa volta è una ex malata di tumore a lanciare il suo messaggio: “Mai avrei pensato che da un giorno all’altro la mia vita potesse cambiare così tanto, accusi il colpo, ti chiedi perché, poi ti rimbocchi le maniche e vai avanti, un giorno alla volta, e così sarà per sempre, se hai la fortuna di sopravvivere. Pensateci quando tutto questo sarà finito, se né può uscire, tutti, persone migliori da questa storia.”
E che lo slogan “Io resto a casa” rimbombi allora nei nostri cuori. Insieme dobbiamo farlo per le tante persone che oggi si sentono sole nella loro sofferenza, ‘per le tante persone che immerse nei loro camici dietro a fredde mascherine continueranno a parlare con gli occhi. Non dimentichiamolo quando tutto questo sarà terminato. Perché torneremo a cantare per strada, torneremo a stringerci le mani, torneremo a sussurrare “ti voglio bene”, torneremo a vivere ma questa volta dovremo farlo imparando ad apprezzare il bello delle piccole cose. Allora ancora una volte urleremo “grazie” agli sguardi che hanno saputo starci vicino. Sarà l’eco di uno slogan a portare questo “grazie” nel mondo.
Mar 17 2020
Quando tutto questo sarà finito…
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