È l’orgoglio quello che più ti resta della Violetta del Carnevale
All’inizio è strano trovarsi dall’altra parte, quella dell’intervistatore. Fino allo scorso anno ero io ad organizzare gli incontri della stampa con la Mugnaia, e dopo le prime sapevo a memoria tutti i particolari della vita (famiglia, studi, carnevale, passioni, emozioni), tanto che avrei potuto concederla io l’intervista. Quest’anno no, ero dall’altra parte della scrivania.
Ho lasciato che fosse l’esperienza del direttore a guidare l’incontro, io ho fatto più che altro l’uditore (non “l’oditore”, per quello i tempi non sono ancora maturi, sono pur sempre “amico di Gambone”). La prima cosa che ti colpisce, ovvio, è la bellezza. Decisa, consapevole, ma non ostentata, unita ad una certa durezza che tuttavia non si traduce mai in atteggiamenti scostanti. Ci accoglie con sincero piacere, manifestando apprezzamento per le prese di posizione del nostro giornale in queste settimane; poi inizia a raccontare di sé, con i consueti argomenti (famiglia, studi, carnevale, passioni, emozioni). E qui, signori, il repertorio c’è tutto: bella, colta, già modella, ora manager, il racconto procede limpido e sciolto come quelli di Shéhérazade, senza incertezze, come lo decantasse per la prima volta.Il piglio è deciso, energico, sicuro, quella sicurezza, quasi spavalda, che promana anche dal praticare l’alpinismo a certi livelli, com’è il suo caso. L’alpinismo, lo so, non è da tutti; è anche questa comune passione che crea subito la liaisongiusta fra noi. Ci si capisce al volo. La montagna ti insegna il sacrificio, la fatica (non solo fisica), la prudenza (anche nel parlare), la rinuncia, la solidarietà, la condivisione. Ma più di tutto, l’orgoglio; è l’orgoglio quello che più ti
resta di questa Violetta, quell’orgoglio antico come l’imponente scrivania scura su cui si appoggia aggraziata quando parla, quella fierezza con cui racconta le origini di suo padre Bruno, italiano d’Istria; costretto alla fuga dopo il maggio 1945 dalla barbarie dell’esercito jugoslavo di Tito, come migliaia e migliaia di altri italiani, è arrivato a Strambino, per poi stabilirvisi tutta la vita. È la stessa fierezza con cui ti racconta di come le hanno chiesto di essere la nostra Mugnaia, di come indossare quell’abito bianco sia ben più di far carnevale, significa avere “Ivrea addosso”.
Andrea Sicco